W. Kasper, Rinnovamento che scaturisce dall’origine. Sull’interpretazione e la ricezione del Concilio Vaticano II.

Sintesi della relazione tenuta al Convegno “Giovanni XXIII e Paolo VI. I due Papi del Vaticano II” (Bergamo, 12 aprile 2013)

1. Il Concilio – una storia incompiuta

Cinquant’anni fa, l’11 ottobre 1962, Papa Giovanni XXIII aprì a Roma il Concilio Vaticano II. Destò speranze ben oltre il mondo cattolico, lasciando un’agenda che, da molto tempo, non si è finito di elaborare. È un concilio incompiuto. I Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI dissero che il Concilio Vaticano sia la bussola per il terzo millennio. Ma questa bussola è ancora in movimento. “C’è guerra sul concilio” disse un giornale italiano già all’occasione del 40° anniversario della conclusione del Concilio. E questa guerra continua anche in questi giorni. Per la mia generazione, il Concilio è restato fino ad oggi qualcosa che ci ha dato l’impronta. Ho un ricordo vivo dell’annuncio sorprendente, dato il 25 gennaio 1959, e della trasmissione televisiva dell’apertura e del grande interesse con cui seguimmo i dibattiti conciliari. Le esperienze fatte allora sono restate punto di riferimento saldo per il mio pensiero teologico. Ma per la maggior parte dei contemporanei il Concilio appartiene, da molto tempo, alla storia. Perché tutti coloro che oggi hanno meno di 60 anni, non hanno potuto vivere in prima persona, consapevolmente, l’avvio di allora. Per loro, il Concilio appartiene a un’altra epoca e a un altro mondo.

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Per la maggior parte dei cattolici, gli sviluppi, messi in moto dal Concilio, fanno parte della vita quotidiana della Chiesa. Ma ciò che vi sperimentano non è il grande avvio e non è la primavera della Chiesa che ci aspettavamo allora, ma è, piuttosto, una Chiesa dall’aspetto invernale, che mostra segni chiari di crisi. Per chi conosca la storia dei 20 concili riconosciuti come ecumenici, questo non costituirà una sorpresa. I tempi postconciliari furono quasi sempre turbolenti. Si pensi anche solo ai tumulti seguiti al primo Concilio ecumenico di Nicea (325) o alla divisione delle Chiese orientali ortodosse (copti, siriani, armeni etc.) dopo il quarto Concilio ecumenico di Calcedonia (451). La maggior parte dei concili poterono solo aprirsi la strada tramite un difficile processo di ricezione. Lo stesso vediamo oggi dal Concilio Vaticano II.

Il Vaticano II, però, rappresenta un caso particolare. Diversamente dai concili precedenti, non fu convocato per estromettere dottrine eretiche o per comporre uno scisma; non proclamò alcun dogma formale e non prese nemmeno deliberazioni disciplinari formali. Giovanni XXIII aveva una prospettiva più ampia. Vide profilarsi un’epoca nuova, cui andò incontro con ottimismo, nella fiducia incrollabile in Dio. Parlò di un obiettivo pastorale del Concilio, intendendo unaggiornamento,un “diventare oggi” della Chiesa. Non intendeva un adattamento banale allo spirito dei tempi, ma l’appello a far parlare la fede trasmessa nell’oggi. Questo era un programma affascinante, sebbene la sua attuazione si dimostrasse più ardua di quanto molti, e probabilmente anche lui stesso, avessero immaginato.

La larga maggioranza dei padri conciliari colse l’idea. Il Concilio non proclamò dogmi formali, ma volle parlare in modo autentico, cioè vincolante in senso magistrale. Muovendo dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione del primo secolo, volle il superamento dell’era costantiniana di simbiosi tra Chiesa e Stato, della mentalità unilateralmente antiriformista e antimoderna; volle cogliere le richieste dei movimenti di rinnovamento biblico, liturgico, patristico, pastorale ed ecumenico, sorti tra le due guerre mondiali; cominciare una nuova pagina della storia con l’Ebraismo, carica di gravami, ed entrare in discorso con la cultura moderna. Fu il progetto di una modernizzazione che non voleva e neanche poteva essere modernismo.

Una minoranza influente oppose resistenza pervicace a questo tentativo della maggioranza. Il successore di Giovanni XXIII, Papa Paolo VI, era fondamentalmente dalla parte della maggioranza, ma cercò di coinvolgere la minoranza e, in linea con l’antica tradizione conciliare, di raggiungere un’approvazione, per quanto possibile all’unanimità, dei documenti conciliari, che in totale furono 16. Ci riuscì; ma si pagò un prezzo. In molti punti, si dovettero trovare formule di compromesso, in cui, spesso, le posizioni della maggioranza si trovano immediatamente accanto a quelle della minoranza, pensate per delimitarle. Così, i testi conciliari hanno in sé un enorme potenziale conflittuale; aprono la porta a una ricezione selettiva nell’una o nell’altra direzione.

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2. Tre fasi della ricezione 

Si possono distinguere tre fasi della ricezione, fino ai giorni nostri. Anzitutto, la prima fase della ricezione entusiastica. Karl Rahner, subito dopo essere ritornato dal Concilio, in una conferenza a Monaco parlò di “inizio dell’inizio”. Ma Rahner restò cautamente scettico in ciò che riguarda il futuro. Altri si spinsero oltre e vollero lasciare in disparte ciò che considerarono elementi della tradizione trascinati nel Concilio come accessori, frutto di compromesso e, come Hans Küng, effettuando un salto di quasi 2000 anni di Storia della Chiesa, interpretarono la dottrina della Chiesa in modo del tutto nuovo, partendo dalla Sacra Scrittura. Pensavano che, essendo stato acceso, per mezzo del Concilio, il primo stadio del missile, fosse ora giunto il momento di passare al secondo stadio. Ma questo secondo stadio assomigliò presto a un’astronave finita fuori controllo.

La reazione non si fece attendere a lungo. Venne non solo dall’arcivescovo Lefebvre e dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X, da lui fondata, ma anche da teologi che, durante il Concilio, erano stati annoverati tra i progressisti (Jaques Maritain, Louis Bouyer, Henri de Lubac). Diversamente da Lefebvre, costoro non criticarono il Concilio in sé, ma criticarono la sua ricezione. Joseph Ratzinger, che, giovane teologo, nel suo ruolo di perito contribuì in modo determinante al Concilio, ebbe toni di riflessione già al primo raduno cattolico dopo il Concilio, tenutosi a Bamberga nel 1966; da cardinale, nel suo rapporto sulla fede, intitolato “Zur Lage des Glaubens” [Sulla situazione della fede] (1985), pervenne a una valutazione complessivamente critica della situazione postconciliare. Di fatto, nei primi due decenni dopo il Concilio, si ebbe un esodo di molti sacerdoti e religiosi; in molti ambiti si ebbero uno scadimento della prassi ecclesiastica e movimenti di protesta di sacerdoti, religiosi e laici. Papa Paolo VI parlò di “fumo di Satana”, entrato da qualche fessura nel tempio di Dio.

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Il Sinodo episcopale straordinario del 1985, 20 anni dopo la fine del Concilio, iniziò la terza fase della recezione. Il Sinodo ebbe il compito di tirare il bilancio. Consapevole della crisi, non volle però unirsi al diffuso coro di lamenti. Parlò di situazione ambivalente, in cui, oltre ad aspetti negativi, c’erano anche buoni frutti del Concilio: il rinnovamento liturgico, che portò ad una maggiore sottolineatura della Parola di Dio e ad una partecipazione più forte dell’intera comunità celebrante; la partecipazione e cooperazione rafforzate dei laici alla vita della Chiesa; gli avvicinamenti ecumenici; le aperture al mondo moderno e alla sua cultura e molti altri ancora.

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3. Luci e ombre della situazione postconciliare 

Contro il diffuso senso di sfiducia, si dovrebbe riconoscere che non c’è carenza di aspetti positivi. Non tutto è negativo. I documenti conciliari non sono rimasti lettera morta. Hanno dato l’impronta alla vita in diocesi, parrocchie e comunità religiose, mediante il rinnovamento della liturgia, una spiritualità caratterizzata da un più forte connotato biblico e la partecipazione dei laici e stimolato il dialogo ecumenico e interreligioso. Il Concilio fu accolto positivamente in particolare dai nuovi movimenti spirituali, sorti negli anni ’70. Essi sono frutto del Concilio Vaticano II e riprendono molti elementi evangelici, inteso l’aggettivo nel suo senso originario, e richieste ecumeniche, come pure elementi di rinnovamento carismatico, che entrarono nella Chiesa cattolica dopo il Concilio. Essi hanno portato alla luce, in modo nuovo, la molteplicità dei carismi e la vocazione universale alla santità. S’impegnano nel dialogo interreligioso, in particolare col popolo ebraico, in favore dell’Europa e per la pace nel mondo; di propria iniziativa, attuano impulsi socio-etici del Concilio e li portano avanti.

Neanche la ricezione ufficiale è rimasta ferma. In parte, passò dal Concilio nelle riforme liturgiche, in cui il Concilio si atteneva ancora al latino come lingua normale liturgica e non si parlava di una celebrazione orientata verso il popolo. Lo stesso vale per le indicazioni socio-etiche di Papa Giovanni Paolo II per l’attuazione della libertà religiosa mediante la rescissione di concordati che collidevano contro di essa e, infine, riguardo alla “politica” dei diritti umani, con cui Giovanni Paolo II fornì un contributo essenziale alla sconfitta delle dittature comuniste dell’Europa Orientale. Vale la pena accennare anche alla sua enciclica sull’ecumenismo, “Ut unum sint” (1995), che è la prima enciclica sull’ecumenismo; essa approfondì le enunciazioni ecumeniche del Concilio e le portò avanti con energia. Tutto questo ha trasformato positivamente, sotto molti aspetti, il volto della Chiesa tanto all’interno quanto all’esterno.

Ma ci sono anche zone d’ombra. Molti impulsi del Concilio, come l’accentuazione delle chiese locali ossia di ogni singola chiesa, la collegialità dell’episcopato, la corresponsabilità dei laici soprattutto delle donne finora sono stati tradotti in pratica con poca convinzione. Per contro, il centralismo curiale si è accresciuto. Abbiamo oggi un centralismo molto più forte quanto prima del concilio. D’altra parte soffiamo da crisi e scandali, come quello della pedofilia, che ci costò la fiducia non solo fuori ma anche dentro la stessa chiesa. Una serie di esperienze recenti, però, ha dimostrato quanto la stessa Curia romana necessiti urgentemente di una spinta verso la riforma e la modernizzazione.

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A ciò si aggiungono altri problemi pastorali, come le questioni etiche, che toccano in modo immediato la prassi di vita di molti credenti; la etica sessuale e matrimoniale, il fatto dei divorziati risposati, il ruolo delle donne nella Chiesa; la carenza di sacerdoti e di credenti, che si fa notare sempre di più, e che porta alla fusione di parrocchie e al cambio di destinazione d’uso di chiese ed istituzioni ecclesiastiche. In alcune di tali questioni, si è di fatto arrivati ad una specie di scisma orizzontale tra ciò che, “in alto”, viene insegnato come vincolante e ciò che, “in basso”, viene fatto nella prassi e che, in massima parte, viene tacitamente tollerato.

Ciò porta a esporre sempre nuove richieste di riforma. Alcune richieste, come quelle per migliorare la cultura giuridica e la trasparenza, sono degne di riflessione; altre, come quella sull’ordinazione delle donne, non possono essere accolte dalla Chiesa, che si sente legata ai fondamenti della fede dati. Altre Chiese e Comunioni, che sono andate ampiamente incontro a tali desideri, e che non hanno né Papa né Curia né celibato, e che ordinano le donne e benedicono le seconde e terze nozze e anche coppie dello stesso sesso, non si trovano in condizioni migliori, quando si tratta di rendere attuale per l’oggi il Vangelo e di spingere le persone alla fede. Evidentemente, la capacità di avere futuro della Chiesa non dipende prioritariamente da tali questioni. Al contrario: una Chiesa che si appoggi almainstreamsociale diventa, in ultimo, superflua. Non diventa interessante, se si orna con piume non sue, ma se fa valere la propria causa in modo credibile e convincente e se compare come contrafforte all’opinione pubblica dominante.

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4. Questioni di ermeneutica conciliare – Il Concilio: evento, lettera e Spirito 

Naturalmente, non si può mitizzare il Concilio o ridurlo ad un paio di frasi a effetto. Non si può nemmeno usarlo come cava di pietra da cui prendere il materiale per singole tesi desiderate. È necessaria un’ermeneutica conciliare, cioè un’interpretazione meditata. Sull’argomento, di recente si è accesa una discussione animata.

Punto di partenza devono essere i testi conciliari, la cui interpretazione va fatta secondo le regole e i criteri universalmente riconosciuti per l’interpretazione dei concili. Bisogna trarre il senso di ogni affermazione, con cautela, dalla storia della redazione, spesso complessa; poi, bisogna collocarla nel complesso, articolato e ricco di tensioni, di tutte le affermazioni conciliari; di nuovo, bisogna intendere ciò nel complesso della intera Tradizione e del suo sviluppo storico, come pure della ricezione avuta nel frattempo. Infine, ogni singola affermazione va interpretata, nel quadro della gerarchia delle verità, partendo dal suo centro cristologico.

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Un ulteriore, importante indizio l’ha dato Papa Benedetto XVI, in un discorso ai cardinali e ai collaboratori della Curia romana, tenuto il 22 dicembre 2005, in occasione del 40° anniversario della chiusura del Concilio. Così ha introdotto la fase più recente del dibattito sull’interpretazione del Concilio. Ha chiarito che il consenso non deve essere solo sincronico (riguardante la Chiesa attuale) ma anche diacronico (riguardante la Chiesa in ogni epoca). Contrappose due ermeneutiche: quella della discontinuità e della rottura, che respinse, e quella “della riforma, del rinnovamento”. Le parole del Papa sono state, spesso, interpretate in modo unilaterale, tralasciando di considerare che non ha contrapposto, come molti affermano, l’ermeneutica della discontinuità all’ermeneutica della continuità. Il Papa parlò di un’ermeneutica della riforma e del “del rinnovamento nella continuità” della Chiesa.

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Il discorso del Papa sulla riforma e il rinnovamento della Chiesa nella continuità, dunque, se alle argomentazioni fondamentali seguono conseguenze pratiche, potrebbe continuare ad essere utile e riaccendere nuovamente il fuoco del Concilio, cioè potrebbe, nella continuità, far vigere di nuovo l’impulso innovatore del Concilio. La Tradizione, secondo un detto molto citato di Tommaso Moro (+1535), non deve trasmettere la cenere ma il fuoco. Non abbiamo bisogno di un adattamento liberale, ma, sulla traccia del Concilio, di un adattamento radicale, cioè di un rinnovamento spirituale che venga dalla radici apostoliche e dal fuoco dello Spirito Santo.

 

5. Nuovo avvio sulla traccia del Concilio 

Come può apparire tale rinnovamento e verso dove può andare il cammino ulteriore? Non ho un programma complessivo. Posso, in conclusione, accennare solo ad alcuni, pochi, punti di vista, che mi sembrano importanti. Il Concilio ha accolto, in modo critico-costruttivo, richieste importanti della Modernità. Oggi, mezzo secolo dopo, dall’Età Moderna siamo passati a quella Postmoderna, ossia, come dicono altri, siamo dentro l’Età Tardomoderna. Molte vecchie questioni si pongono in modo nuovo; molte questioni si sono acuite. Anche molti ideali dell’Illuminismo vengono oggi messi in discussione. La fede nel progresso, che c’era allora, come pure la fiducia nella ragione, sono scosse. Ciò non significa che il Concilio non sia più attuale. Al contrario: nella nuova situazione, come ha detto Giovanni Paolo II, diventiamo, in un certo modo, alleati delle richieste legittime dell’Illuminismo.

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Un secondo punto di vista devo, giustamente, aggiungerlo. Dobbiamo prendere atto che la situazione è cambiata, dai tempi del Concilio. La Chiesa è diventata Chiesa mondiale, in modo nuovo. Nel nostro mondo globalizzato, oltre due terzi dei cattolici non vivono in Europa, ma nell’emisfero Sud. Il problema dell’unità e della molteplicità si pone, quindi, in modo affatto nuovo.

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Terzo punto di vista. Il problema dell’unità e della molteplicità si acuisce nella questione della libertà del singolo essere umano e del singolo cristiano. Oggi si parla molto dell’individualizzazione della nostra società. Il problema si pone anche nella Chiesa. I problemi si pongono per molti cristiani e curatori d’anime, soprattutto nelle questioni etiche.

Il Concilio ha accolto la richiesta nelle sue dichiarazioni sulla coscienza. Ha definito la coscienzail nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità (GS 16). J. Ratzinger ha analizzato accuratamente quest’affermazione in un commento già nel 1968, concludendo che il Concilio non ha ancora completato la sua affermazione. Ha rimandato aJohn Henry Newman (+1890), che così termina la sua famosa lettera al Duca di Norfolk (1874): “Se fossi costretto, dopo aver pranzato, durante i brindisi, a farne uno alla religione, allora berrei certo al Papa; ma, prima alla coscienza e poi al Papa”.

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Nella situazione attuale non si tratta più del ateismo teorico e filosofica del novecento, neppure del cosiddetto nuovo ateismo di alcuni scienziati del nuovo darwinismo cioè di un evoluzionismo divenuto più o meno ideologico e della neurologia; neppure si tratta della teodicea. cioè il problema non solo filosofico ma esistenziale di Dio di fronte al male. Perché questo problema esiste solo per coloro che credono in Dio e non riescono riconciliare la onnipotenza di Dio e la sua bontà con l’esistenza del male nel mondo. Finalmente il problema non sono gli “atei devoti”, o meglio i agnostici, che sentono il vuoto e sono in ricerca, che si trovano nell’ atrio delle genti. Karl Rahner una volta disse: “Un vero ateo o un agnostico è un caso fortunato pastorale. Perché con lui si può almeno discutere”. Però, il problema di oggi è, che Dio non è più un problema, ovvero sembra che non sia più un problema e che a sua esistenza non interessa ovvero sembra che non interessi più. Il problema è l’indifferenza.

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In tale situazione non possiamo curarci soltanto degli effetti sociali, culturali e politici della fede, considerando la fede in Dio come premessa ovvia. Anche non basta curarci soltanto delle questioni di riforma interne alla nostra Chiesa; queste questioni sono interessanti solo per gli insider. Le persone lì fuori, nell’”atrio delle genti”, hanno altre domande: da dove vengo e dove vado? Perché e per quale fine esisto? Perché il male, perché la sofferenza del mondo? Perché devo soffrire? Come posso metterci fine e come posso viverci? Questa situazione sollecita, da parte della Chiesa, che noi siamo “teo-logi” il cui compito è il logo di teós, il parlare di Dio. Non è un programma nuovo, ma è il programma stabilito, già nel XIII secolo, da uno dei maggiori teologi della cristianità: Tommaso d’Aquino. Già all’inizio della sua Summa Teologica, disse che, nella teologia, si tratta di Dio e di tutto il resto nella sua relazione con Dio. Ma come fare questo oggi? Questo mi pare è la grande domanda e la sfide per noi oggi. Non dobbiamo parlare di una trascendenza vaga, ma, dobbiamo parlare concretamente, del Dio che, in Gesù Cristo, si è rivelato come Dio con noi e per noi, del Dio infinitamente misericordioso a cui noi, nella preghiera, possiamo dire “Abba, Padre”.

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Il cammino avviato dal Concilio non è finito. Dobbiamo continuare a farlo, con pazienza e coraggio e, nonostante tutto, con unahilaritasinteriore. Ognuno di noi è solo una piccola luce. Anche il movimento di rinnovamento preconciliare cominciò con singoli individui e piccoli gruppi. Nel rinnovamento postconciliare, non andrà diversamente. Se non ci facciamo rovinare la gioia, allora, un giorno, essa potrà passare agli altri. La gioia è contagiosa. Può contribuire a far sì che la Chiesa, in un mondo che cambia velocemente ed è profondamente insicuro, diventi, in modo nuovo, bussola e segno d’incoraggiamento. Questa gioia è ciò che auguro a Voi e la auguro a tutti noi.